La guerra alla Libia

21/03/2011 - "La prima fondamentale direttrice d'azione del Movimento Nonviolento e' l'opposizione integrale alla guerra"

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21/03/2011 - "Odissea dalla politica", Comunicato stampa del presidente di Pax Christi Italia

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20/03/2011 - "Riflessioni sulla guerra alla Libia", di Enrico Peyretti

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Risposte all'articolo di Enrico Peyretti

Luigi Bonanate - 20/03/2011
Caro Enrico,
non mi piace mai intervenire su queste questioni (specie a caldo), perché le opinioni e i giudizi sono sempre in qualche modo determinati dalla passione (uso il termine nella sua accezione più vasta) e i risultati finiscono per non aiutare nessuno a migliorare la sua analisi. Uno dei danni principali della guerra è proprio quello di impedire persino a chi "non c'entra niente" (in apparenza) di esprimersi serenamente e pacificamente.

Ma partiamo, tanto per stare ai nostri riferimenti di fondo, a Bobbio, e a come commentò nel 1991 a guerra del Golfo che aveva una sua materiale giustificazione nell'attacco a freddo da parte di Saddam. Per Bobbio fu una guerra giusta perché efficace per ristabilire il diritto. Ok, ma quale diritto? gli si rispose. Il Kuwait aveva poi davvero "diritto" a esistere? L'unica risposta era allora: aveva il diritto datogli dal fatto di esistere e di essere riconosciuto dalla comunità internazionale come stato sovrano... Già, ma che cavolo di diritto è quello che deve essere difeso semplicemente perché esiste, invece che perchéé è giusto? Il Kuwait, poi, non era altro che il frutto della millesima delle operazioni coloniali della storia, e quindi... Il caso libico ha aspetti analoghi: la nostra giustificazione a intervenire è che Gheddafi uccide i suoi compatrioti. Se questa fosse la giustificazione buona (l'esistenza di un regime odioso e violento), ovviamente la comunità internazionale sarebbe già dovuta intervenire mille altre volte: in Cile, ad esempio, ai tempi di Allende (o in Russia, al tempo della Cecenia).
Dobbiamo ben fermarlo... Già, ma perché lo abbiamo coccolato fino a ieri? E poi, nel modo che abbiamo adottato per intervenire, riusciremo a diminuire la mortalità finale del tutto? Alla fine, avremo migliorato lo stato delle cose (fatto meno male che in ogni altra alternativa)? Diciamola diversamente: in casi come questo, delle due soluzioni fondamentalmente possibili (intervenire per fermare un delitto; astenersi per non commetterne un altro) NON ESISTE (quando le cose sono arrivate a questo punto) alcun modo per stabilire quale sia giusta e quale sbagliata. Si tratta di due mali. E poiché entrambi lo sono, ciascuno dovrà scegliere la posizione che moralmente (=secondo la sua moralità, la sua passione, il suo passato) riterrà giusta. Nei casi estremi (come quelli come questo vengono chiamati dai filosofi), non c'è che una soluzione: o da una parte o dall'altra (sotto-posizioni, distinzioni e/o precisazioni, non valgono nulla: servono solo a salvarsi l'anima). Risultato: c'è un solo modo, in termini morali, per sfuggire alla trappola, e consiste nel rifiuto totale e aprioristico al ricorso alla guerra, all'uso della violenza. E' la soluzione migliore; ma - non lo dimentichiamo - anche quella più difficile da sostenere fino in fondo...Tutto il resto son chiacchiere.
Ma anche questa posizione ha un'alternativa: la volontà (la decisione, l'intenzione, chiamiamola come vogliamo) della maggioranza (in questo caso, quella dell'opinione pubblica "ufficiale/politica" internazionale): credo che la maggioranza del mondo ritenga che in questo frangente opere di convincimento nei confronti di Gheddafi siano impossibili, e che l'intervento (più mirato, chirurgico, eccetera, possibile) sia ritenuto la sola via per evitare il massacro "libico commesso da libici", ritenuto meno grave che un "massacro libico commesso da non-libici". Visto che le cose sono state lasciate andare avanti nel modo che sappiamo, per 20/30 anni, è difficile trovare qualcuno da assolvere: l'Occidente doveva "svegliarsi" prima; l'opinione pubblica italiana (per non andar lontano, e per ricordare un gesto grave non sul piano dello stile politico, ma su quello della morale) non doveva ridere e scherzare sull'episodio del baciamano a Gheddafi: doveva ribellarsi, e cacciare il politico che si era comportato in tal modo. Ma l'opinione pubblica italiana non l'ha fatto e ora diventa difficile spiegare a Gheddafi che prima ci era simpatico o ci era parso soltanto un buon tempone, ma che adesso...aveva proprio esagerato. No, no.
La politica si fa tutti i giorni e non solo ogni tanto: chi ha accettato Gheddafi per 30 anni, oggi non dovrebbe potergli sparare, perché allora noi dovremmo poter sparare a lui, e così via e la catena della violenza non si fermerà o non si fermerebbe mai.
Ma la politica vera non è il regno delle anime belle, bensì delle alternative effettivamente praticabili. Che cos'è che, oggi come oggi, può ridurre il più possibile il male nel mondo? Probabilmente, l'eliminazione di Gheddafi, ma per accettarla... e si ricomincia il ragionamento da capo.

Più individualmente, concludo: le politiche sbagliate conducono a risultati sbagliati. Tutto il mondo, per anni, ha accettato Gheddafi; ha ritenuto che il Medio Oriente (in senso ampio) stesse bene così: un po' sotto controllo occidentale, un po' bloccato dai suoi stessi contrasti interni cosicché l'Occidente poteva continuare a sguazzare con questo e con quello facendo affari e bevendo petrolio fino a ubriacarsi. Vogliamo (ma possiamo, politicamente, farlo?) andare a vedere i conti della squadra di calcio di Moratti? Quali sono gli affari che consentono alla famiglia di dare al suo rampollo meno adatto agli affari tutti i soldi che vuole pur di lasciar lavorare i membri intelligenti? E poi, non dimentichiamo che la nostra pubblica opinione (ma nel resto del mondo è la stessa cosa) continua a tener separate le pubbliche virtù dai vizi privati - come in privato si potesse uccidere, violentare, sfruttare, eccetera, pur che in pubblico si bacino le mani a dittatori, preti, eccetera...


Massimo Zucchetti - 20/03/2011
mi permetto di postare qui i risultati del mio studio di impatto ambientale e tumori causati dall'uso di missili Cruise all'Uranio impoverito sulla Libia (Leggere lo studio).
Quando si parla di numeri, mi sento piu' a mio agio che con le valutazioni politiche, filosofiche ed etiche, essendo solo un povero ingegnere nucleare, in fondo.
Poiche' capisco che a non tutti piace la Radioprotezione come a me, che ne ho fatto il mio mestiere, riassumo il dato principale: sono attesi fino a seimila morti di tumore in seguito a questa pratica democratica e pacificatrice.
Passo ora la palla a chi si intende di etica: e' un giusto prezzo da pagare, come disse a suo tempo la signora Albright per i morti in Iraq?
Passo ulteriormente la palla a tutti coloro che si sono giustamente molto agitati in seguito alla catastrofe nucleare giapponese, aspettandomi altrettanta indignazione.


Joerg Luther - 20/03/2011
Caro Enrico, caro Gigi e cari amici del CISP,

grazie per aver stimolato questo dibattito che spero non rimanga troppo italiano. Potremo convenire in linea di principio che la storia delle relazioni tra Italia e Libia impone una responsabilità particolare per "la pace e la giustizia" fra le due nazioni e il resto del mondo (art. 11 Cost.).

La costituzione ripudia peraltro la guerra come "strumento di offesa alla libertà degli altri popoli". La questione aperta è se qui siamo in un'ipotesi di offesa o, come sostiene ad es. Daniel Cohn Bendit, di difesa della libertà del popolo (o dei popoli) della Libia.

La guerra non può non essere un male, ma potrebbe essere un male minore intraprenderla per impedire un massacro minacciato da un dittatore che mi pare non abbia mai rinnegato il proprio passato da terrorista.

Per quanto il petrolio possa essere un movente di fatto, non va dimenticato che nel caso del Kuwait si è trattato di un tentativo riuscito di fare rispettare il divieto di annessione come regola di diritto internazionale inviolabile.

Nel caso della Libia si tratta ora di un intervento armato autorizzato da un'apposita risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, finalizzato a porre fine all'uso delle forze armate contro un popolo che aveva manifestato con mezzi pacifici la proporia volontà di terminare la dittatura forse più lunga attualmente governante.

La Costituzione impone all'Italia di favorire le organizzazioni internazionali rivolte a garantire, se del caso anche con mezzi di coazione nel rispetto della legalità e dei principi di proporzionalità e di sussidiarietà, la pace e la giustizia fra le nazioni.

Ora qualcuno potrebbe argomentare che non solo la volontà di democrazia e di rispetto dei diritti umani nel mondo arabo, anche il rispetto del diritto internazionale nel mondo intero potrebbe crescere con la partecipazione italiana agli interventi armati autorizzati.

Possiamo tutti concordare sul principio che sarebbe cinico ed illegittimo intervenire militarmente al solo fine della tutela degli investimenti delle imprese italiane o per prevenire richieste di asilo e rifugio sul territorio italiano.

La politica estera dell'Italia deve essere libera di decidere con coscienza e ragionevolezza. Se in un bilanciamento degli interessi in gioco, si considerano prevalenti quelli della nazione, ad es. alla sicurezza dei cittadini e alla costruzione di rapporti di buon vicinato (art. 8 del Trattato di Lisbona!), anche i fautori di un intervento armato devono riconoscere la legittimità di una posizione di sostegno solo politico e passivo all'attuazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza.

Quel che è culturalmente intollerabile e moralmente deprimente è invece
- l'assenza o non trasparenza della linea politica italiana in sede di NATO,
- il mancato coinvolgimento del parlamento nella deliberazione dell'indirizzo politico,
- l'assenza o non trasparenza delle posizioni politiche delle opposizioni a tal riguardo, peraltro causata dalla mancanza di un governo che premi tanto la responsabilità personale quanto la collegialità nei ripettivi partiti,
- la delega ai mass media nazionali, nel loro stato attuale, delle funzioni di consulenza per la politica estera.

La riflessione è appena iniziata e merita di essere proseguita.

Un caro saluto


Valerio Onida - 20/03/2011
L'uso della forza da parte o con l'avallo dell'ONU non è escluso dalla carta dell'ONU né dall'art. 11 della nostra Costituzione, purchè abbia fini coerenti con i principi. Equivale all'intervento con la forza della polizia in caso di minaccia all'ordine interno.

A me sembra che:
  • se l'alternativa all'intervento era assistere impotenti alla ripresa completa del potere da parte di Gheddafi e al soffocamento della "ribellione" (ciò che sembra stesse accadendo) dovrebbe valere lo stato di necessità; le alternative proposte ("invasione" civile e diplomatica) non avevano e non hanno alcun grado di concreta praticabilità;
  • può essere che si potesse e si dovesse intervenire prima con altri mezzi, se fosse stato possibile: ma in ogni caso, di fronte all'estremo e immediato pericolo, l'inerzia precedente non giustifica l'inerzia oggi;
  • in Egitto e in Tunisia dei processi di superamento delle dittature o semidittature in atto si sono verificati con successo; in Libia, a quanto sembra, si era sul punto di vederli completamente fallire;
  • può essere che nelle politiche degli Stati occidentali pesino gli interessi petroliferi o economici: ma lo stesso si potrebbe dire di ogni altra forma di intervento o di non intervento in Libia, no?
  • la differenza fondamentale rispetto ad altri casi di intervento armato è che questo ha la paternità dell'ONU (quindi nessuna analogia con l'Iraq).
Insomma, qui più che problemi di principio mi sembrano in gioco strategie concrete: come quando di fronte ad un episodio di sequestro si discute se intervenire con blitz delle forze di polizia o adottare altre strategie. Discussione legittima, ma che non può portare a delegittimare radicalmente a priori l'uso della forza


Enrico Peyretti - 20/03/2011
In risposta a Valerio Onida.
Grazie, caro Valerio. Capisco le tue considerazioni, che pongono comunque angosciosi interrogativi nell'osservare questi fatti. Vedo una differenza (in questi casi confusa) di fini e di mezzi tra polizia e guerra: la prima deve contenere e ridurre la violenza, la seconda deve accrescerla per poter vincere. Possibile che non si sappiano costruire strumenti di polizia, anche forte ma non distruttiva come è ogni guerra, anche questa, fisicamente e simbolicamente? In realtà, sono gli stati nella pretesa "sovranità" (superiorem non recognoscens) che non attrezzano una polizia dell'Onu. La quale, per suo principio, non può autorizzare alcuna "guerra", essendo formata per "liberare l'umanità da questo flagello". Capisco i limiti della realtà e del momento, ma non vedo una cultura politica - salvo la nonviolenza, solitamente relegata nelle utopie impossibili, a torto perché ha notevoli esperienze storiche (allego una bibliografia) - che si impegni in questa ricerca, di un ordine mondiale controllato con metodi di polizia civile senza l'offesa e la distruttività della guerra, che nasce dalla legittimata insubordinazione degli stati all'umanità. Mi pare questo il passo che la cultura politica deve fare (e che avviene nelle culture alternative): abbandonare la divisione schmittiana dentro-fuori, amico-nemico, che fonda il mortale diritto di guerra ancora preteso ed esercitato dagli stati. L'Onu è un abbozzo, con le note contraddizioni strutturali, e il pensiero universalista della pace nonviolenta ne rappresenta lo sviluppo. Se tu ne avessi il tempo, mi sarebbe prezioso un tuo parere. Scusa la sommarietà, nella fretta. Grazie ancora e cari auguri per il tuo impegno!
Ciao